Nato a Lucera, in provincia di Foggia, il 29 ottobre 1801, Alessandro di Troja (il cui nome appare talvolta anche come Alessandro De Troia) mostrò fin dalla giovinezza una profonda devozione. Ammiratore fervente di Francesco Antonio Fasani, noto in Puglia come “il Padre Santo” e poi canonizzato nel 1986, inizialmente considerò l’idea di unirsi all’ordine dei Frati Minori. Tuttavia, per compiacere la madre, che desiderava non separarsi da lui, Alessandro optò per il clero diocesano. A diciassette anni vestì l’abito talare e iniziò la sua formazione teologica e filosofica privatamente, guidato da un sacerdote locale.
Prima di accedere agli Ordini maggiori, il giovane prete scelse, con un atto formale, di rinunciare ai beni di famiglia. Mantenne solo il cosiddetto “sacro patrimonio”, la dote richiesta per l’ordinazione. Un documento, scoperto da Luigi De Sio durante la ricerca storica per la causa di beatificazione, rivela che nel 1822 Alessandro raggiunse un accordo con i fratelli Lorenzo e Antonio, conservando solo l’usufrutto della casa paterna, equivalente a 50 ducati.
Nel 1824 divenne diacono e, due anni dopo, nel dicembre del 1825, fu ordinato sacerdote. Il suo primo incarico pastorale lo vide rettore della chiesa di Sant’Antonio Abate a Lucera e, contemporaneamente, cappellano del carcere. La sua attenzione non si limitò ai detenuti, ma si estese alle loro famiglie, guadagnandosi profonda stima e ammirazione nella sua comunità. Questa dedizione s’inseriva nel più ampio contesto dell’impegno della Chiesa diocesana di Lucera verso le fasce più deboli, un periodo di notevole fermento pastorale e culturale, sebbene non privo di tensioni con le autorità civili.
Dopo il periodo trascorso in quella comunità, dal 1826 al 1828, fu nominato vicario economo della parrocchia di San Matteo Apostolo. Appena insediatosi, don Alessandro compì un gesto di grande impatto: destinò ben 14 dei 19 ducati che percepiva di rendita in beneficenza, a favore dei poveri della città. Questo atto spinse la Curia Vescovile a monitorare con maggiore attenzione i suoi resoconti economici.
Soprannominato affettuosamente don Sante dalla popolazione, il sacerdote mantenne sempre il suo focus sui più bisognosi. Ottenuto il permesso dal confessore, iniziò ad accogliere un numero crescente di persone nella propria abitazione, offrendo loro sostegno materiale e spirituale attraverso la preghiera. Molti tornavano per esprimere gratitudine per la soluzione dei loro problemi o per guarigioni ottenute, ma lui attribuiva ogni merito al Padre Santo, modello costante del suo ministero. Sei testimonianze giurate in tal senso furono raccolte e registrate proprio in quegli anni, durante la ripresa del processo di beatificazione del Fasani.
Un’altra iniziativa caritatevole fu la progettazione di una struttura per l’assistenza e la riabilitazione sociale di donne in difficoltà. Purtroppo, fu proprio questo progetto a scatenare maldicenze e forti critiche. Don Alessandro affrontò le avversità con pazienza, arrivando a dimettersi dall’incarico di economo in attesa che la situazione si chiarisse. Una volta dimostrata la sua innocenza, fu riabilitato e nominato docente in Seminario.
La sua vita terrena si concluse prematuramente a causa di una malattia, il 31 gennaio 1834, all’età di trentadue anni, una data che, secondo la tradizione, egli stesso aveva predetto. La profonda venerazione popolare spinse alcuni cittadini di rilievo a richiedere al Sindaco una sepoltura onorata. Ottenuta l’autorizzazione, il Vescovo dell’epoca, monsignor Andrea Portanova, decretò che fosse tumulato nella Cattedrale di Santa Maria Assunta, presso l’altare di santa Filomena.
Solo otto anni dopo la sua scomparsa, nel 1842, fu più volte ricopiata, ma mai edita, redatta dal suo amico e confidente Francesco Saverio Lepore, all’epoca “fisico” (medico). Sebbene la memoria di don Alessandro non sia mai venuta meno, il percorso per l’accertamento delle sue virtù eroiche fu avviato solo nel 1999. A causa del tempo trascorso, furono istituite una commissione storica e una commissione per l’ispezione del sepolcro. Il loro lavoro congiunto fu presentato al Vescovo monsignor Francesco Zerrillo che, dopo aver ricevuto il parere favorevole della Conferenza Episcopale Pugliese, inviò la richiesta di nulla osta alla Santa Sede il 2 maggio 2000, ottenendolo il 7 luglio 2000.
La fase diocesana del processo iniziò il 28 ottobre 2001. La sessione conclusiva pubblica si tenne nella Cattedrale di Lucera il 7 gennaio 2007, subito dopo la Messa vespertina. La chiusura definitiva del processo, con la sigillatura dei documenti, avvenne il 21 giugno 2007 presso il seminario vescovile di Lucera, alla presenza di monsignor Zerrillo. L’11 luglio dello stesso anno la documentazione fu trasmessa alla Congregazione per le Cause dei Santi a Roma.
Negli anni del processo, la figura del Servo di Dio è stata commemorata attraverso convegni di studio e, nel 2003, con l’intitolazione di una piazza di Lucera a suo nome. Oggi, i suoi resti mortali riposano all’interno della Cattedrale di Lucera, vicino all’altare di Santa Maria Patrona.




